WORK

INCONTRO CON GIANNI OTR

I lavori qui presi in esame riflettono, con precisione ed attendibilità, quegli elementi che fanno da filo conduttore nell’arco di tempo dal 1990 ai giorni d’oggi.
L’instabilità, forse, è quell’elemento che maggiormente spicca e vibra nelle opere fotografiche di Gianni Otr.
Negli anni ’90 Gianni fa un viaggio in Brasile con la ferma “intenzione di andare”, andare ad esplorare, andare a sperimentare: andare a fotografare.
Prendendo spunto da un fotografo americano che usava la camera oscura come tecnica d’eccellenza per realizzare i suoi lavori, anche Gianni decide di adottarla. L’elemento principale con il quale giocare, soggetto ed oggetto d’osservazione, diventa la sfera. Nasce così una serie di fotografie in bianco e nero che porta il titolo La sfera in Brasile.
La sfera, elemento quasi alchemico, legato al mondo della magia, è quell’oggetto in cui, passanti curiosi delle vie brasiliane, si avvicendano per vedervi riflesso la propria immagine, i propri volti, le proprie espressioni, la propria curiosità  creando, agli occhi del mondo, una situazione quasi teatrale. E proprio in quel momento di così stretta vicinanza Gianni scatta, riprende, fissa quell’incontro magico fra il fautore e la sfera. Una sfera, palla tonda e perfetta nella sua forma che, grazie alla sua geometria, aiuta Gianni nella sua ricerca artistica e concettuale, quella cioè di un costante lavoro intimo sulla instabilità. Non solo, la sfera lo aiuta in quel bellissimo e ludico gioco del ribaltamento, del vedere “tutto in modo diverso ….. distorto”, lontano da canoni stabiliti, fissati e “reali”: si tratta di una visione intima e personale dell’artista che, incessantemente, cerca di manifestare contraddizioni e verità proprie.
Anche Segni di luce è una serie di fotografie, a colori. Nello splendido scenario delle campagne fiorentine, con l’aiuto di un cielo terso, Gianni usa la macchina fotografica come se fosse un pennello realizzando delle composizioni quasi fossero dei quadri, delicati acquerelli in cui si può chiaramente notare e percepire ogni piccola sfumatura cromatica ed emotiva.




L’artista usa un tempo lungo per lo scatto grazie al quale riesce ad ottenere, e fissare su carta, soggetti vibranti e sempre distorti, soggetti che fanno parte della sua fantasia, del suo mondo in esplorazione in cui, luce ed energia, qui, giocano un ruolo importante per arrivare alla climax della sua poetica, cioè a quella insaziabile esigenza di manifestare l’instabilità interiore, che proprio in questa serie di foto e grazie ai soggetti usati (fil di ferro, gocce d’acqua …) è “ridotta” e ricondotta a rigore e precisione grafica.
25 foto a colori formano la serie Flowers in the mirror del 2011. Anche in questo caso si tratta di opere altamente simboliche ove il concetto della mutevolezza di tutto è reso dall’immagine del fiore riflessa nello specchio.
Ancora una volta la superficie specchiante ritorna a giocare un ruolo chiave, esso è elemento tecnico del quale avvalersi ma anche elemento emotivo di ricerca e meditazione. Anch’esso, insieme al fiore, è soggetto ed oggetto, riflette ed induce a riflessione intima, a quella riflessione in una dimensione profonda troppo spesso defilata, rifiutata, evitata accuratamente e mascherata dietro a quella apparenza ed immagine che ogni giorno l’uomo si costruisce, dietro a quella immagine che sa di fittizio, di effimero, di edonismo.  Gianni Otr, come un bravo demiurgo, rimanda a questa inconsapevolezza voluta, alla maschera che adottiamo per non voler vedere e comprendere che tutto è impermanente, che tutto può e deve mutare, per fino quella bellezza di cui siamo così umanamente attaccati e che qui è rappresentata dal fiore.


Barbara Bacconi, 2011
Firenze








 
PLATFORM

Definirei Platform coinvolgimenti plastici più che sculture in cui già il titolo che portano dà ampia possibilità, ad ognuno,di sentire, plasmare  e disegnare significati e strutture.
Si tratta di piattaforme in cui, appunto e giustamente, ogni fruitore, ha il diritto di vivere le proprie emozioni e dare un senso a ciò che si trova, attentamente, ad osservare.
Platform viene definito da Stefano tutto ciò che fa, tutto ciò che passa dalle e tra le sue mani.
Nello specifico noi dobbiamo osservare le quattro opere realizzare tra il 2007 ed il 2010:  Sentinelle, Platform White e Sabbia.
Tecnicamente si tratta di sculture modulari, componibili tra di loro quasi a voler giocare e trovare una loro “giusta” collocazione spaziale.  E, da ottimo artigiano quale è diventato Bruschi, l’artista si avvale di tecniche già in uso e da lui sfruttate per concepire le sue opere.
 Platform è un lavoro che inizia da una procedura in positivo, lavorando la creta  “spingendola al di fuori”, creando  morbidi volumi,  vuoti e pieni che poi, nella colata in gesso, emergono in tutta la loro bellezza. 
  




 
A noi l’onore di vedere l’altra faccia della medaglia, quella parte che Stefano non sa come verrà  perché questo è uno dei punti importanti, nodo cruciale della poetica di Stefano Bruschi: lasciare fluire le proprie emozioni, veicolate sempre e comunque da una ottima capacità manuale, e lasciarsi andare a quel caso che non è casualità cieca ma pura curiosità di “quando tolgo l’argilla e vedo il risultato….”.  E’ lavorare su ciò che non si vede ma che si sente, piano piano, fluire a livello emotivo e, simultaneamente, è portare avanti una pura ricerca plastica ove trovare costantemente quell’equilibrio ed armonia tra la forma ed il colore che, per queste opere, tende all’avorio ed è molto legato al materiale usato dall’artista, cioè al gesso ceramico.
Un colore che c’è ma che non deve essere visto perché i soggetti trattati sono già carichi, presenti, esistenti e non hanno certo bisogno di essere enfatizzati dal colore anzi, esso li aiuta ad essere più puri e veritieri. Un colore che sta all’opera in una continua ricerca tra forma e cromatismo.
Non si tratta quindi di un colore  ammiccante, semmai di un delicato preludio che ci accompagna nel gioco, tra le forme sempre morbide, che ci fa perdere fra i volumi ma che ci richiama e ci porta fuori dai vuoti per poi farci ricominciare da capo un percorso che, in Platform, non è mai lo stesso ma, come un work in progress, sembra cambiare e trasformarsi sempre in qualcosa di nuovo, in cui, “perdersi per trovarsi” sembra essere racchiuso nel linguaggio silente delle opere bruschiate.


 

Barbara Bacconi, 2011
Firenze










WUNDERKAMMER

Liberamente, Naturalmente, SpazzaSpaziale sono tre di una serie di wunderkammer alle quali lavora in vesti di  moderna certosina l’artista Alice Corbetta.
Lo spirito della wunderkammer, come raccoglitore di oggetti, viene ripreso dall’artista con la contemporanea variante però di creare dei contenitori di visioni ai quali sono strettamente legate altri elementi.
Alice Corbetta conserva tutto ciò che le piace e, così facendo, accumula un’ enorme quantità di materiale che, al momento giusto, viene tirato fuori, rispolverato e, come nel caso delle wunderkammer, riciclato. Tutto questo materiale, nella poetica dell’artista, potrebbe essere parodia di se stesso perché, in primo luogo, l’uso che ne fa l’artista richiama, più o meno chiaramente, proprio a quell’assurdo accumulo di materiale ed alla difficoltà di ognuno a separarsene; inoltre esso è materiale da usare per creare questi  particolari e singolari mondi in cui diventa quasi necessario riconnotare tutto.
La prima wunderkammer viene realizzata dopo una visita a Berlino, quando Alice ha voglia di rimettere insieme i pezzi di questo viaggio.  L’onda di Berlino sembra rispecchiare fedelmente ogni tappa, emotiva e geografica vissuta da Alice: sullo sfondo di questo primo teatro appare la mappa della metropolitana della città sormontata da un aereo gigante che sembra troneggiare su un cielo lieve e, sotto, in primo piano, papaveri campeggiano e coprono, come enormi querce, piccoli alberelli colorati fatti di feltro uno accanto all’altro, in un perfetto ordine ed equilibrio, chiaro riferimento al fatto che a Berlino non ci sono parchi e la gente crea il suo piccolo giardino sul balcone.

 


 
Ed ecco allora la perizia compositiva di Alice Corbetta, questa sua attenta osservazione della realtà circostante, attenta alle emozioni, attenta a una natura che deve essere conservata per cui, l’oggetto wunderkammer,sembra assolvere perfettamente alla sua funzione: mantenere per trasmettere per far riflettere per ripartire con nuovi input.
Natura sottovuoto racchiude due significati, il primo rimanda alla difficoltà di trovare ancora della natura incontaminata e quindi la necessità, per l’artista, di doverla preservare per poterne trasmettere tutta la sua bellezza alle generazioni future, come simbolo di cultura e rispetto; dall’altra parte, forse conseguenza della prima riflessione che ci porta a fare Alice, ci colpiscono le forti immagini, ritagliate accuratamente e poi incollate nella scatola, nelle quali si vedono alcuni bambini che giocano ma costretti a farlo dentro a inusuali palle di plastica perché l’ambiente in cui vivono è inquinato, per cui impraticabile, naturale conseguenza di atti distruttivi da parte dell’uomo.
In Tuttotantotroppo Alice ritorna a lavorare sul tema dell’accumulo, chiara ossessione dell’uomo moderno, circondato proprio da quel “tutto” che lo fa sentire  potente, ricco, magari anche felice, un uomo che sembra quasi cibarsi di quel “tanto” che non può non diventare un “troppo”, chiaro simbolo di eccesso e forse stupidità. Di un “tanto” che diventa “troppo” quando è intrappolato nelle ordite maglie dell’attaccamento. L’artista ci racconta di un riempimento, di tutto quell’eccesso  del quale, ad un certo punto, ci sentiamo schiacciati, che non ci dà più sicurezze ma solo assuefazione, e poi, lunga solitudine.

 





 In Serate Illuminate Alice fa un passo evolutivo aggiungendo una pellicola lenticolare prismatica curvata sul davanti della wunderkammer come fosse un filtro protettivo dietro al quale si dipana tutto un gioco di illusioni, create, appunto, dalla curvatura della pellicola che dà origine a magnifici ologrammi. Immagini di carta, accuratamente ritagliate, rappresentano alcune donne che fluttuano in acqua, elemento prezioso per Alice Corbetta e che diventa veicolo esso stesso di proiezioni speciali grazie alle quali chi osserva entra in una dimensione surreale.
Le wunderkammer di Alice sono otto piccoli mondi, teatri di reminescenze in cui però la memoria diventa principio attivo di un presente appena svanito e  di un futuro che trova le radici in una riflessione sull’uomo ed il suo ambiente; teatri in cui giocare e lasciarsi andare ad una elegante magia e ad una fervida suggestione.





Barbara Bacconi, 2011
Firenze





THE REGULATING LINE


The regulating line es la obra de Shahryar Nashat  realizada en 2005, en la cual el artista quiere enfrentar la visión convencional estática adoptada en un museo con una nueva visión más humana e individual de un visitante.
Este vídeo nos ofrece tres elementos esenciales: un museo cargado de historia y de cultura; un atleta que efectúa su performance; una comparación.
Toda la performance se desarrolla en un site specific de excelencia, el Louvre, en una de sus galerías adonde 24 impresionantes cuadros, pintados por Rubens, representan las etapas fundamentales de Maria de Medici, reina de Francia desde 1600 hasta 1610.


 


Un museo entonces, un lugar sagrado, inviolable, depositario de una cultura que ya “ha sido”; un lugar en que las obras se perpetúan en el tiempo; un lugar en que ellas mismas invitan el visitante en un viaje temeroso en la historia: debemos solo mirar, escucharnos a nosotros mismos, percibir con los sentidos. Nada más.
Entonces hablamos de una performance, de una acción que no tiene un especifico ápice: aquí todo se hace importante, todo es contextualizado adentro de la galería. La acción es calma como si siguiera un ritmo sin particulares modulaciones y desde el comienzo ya podemos saborear aquella que será la regulating line.
Entrar, observar, desnudarse, caminar: de esta forma empieza la búsqueda de nuestro personaje principal, una búsqueda que, como ya dije, tiene sabor de comparación, de nuevos significados culturales y estéticos. Los grandes cuadros en frente a  los que se queda son “Il ritratto di Angulema” y “La pace di Angeres”; detrás de su espalda vemos “La istruzione della Regina” y “Enrico IV riceve il ritratto della Regina”, una pintura grandiosa, y no sólo por el tema tratado; una pintura donde el color juega un papel fundamental y en que hay un marcado gusto por la redondez feminina y por la poderosa anatomía.

En esta dimensión espacio-tiempo-estética Nashat juega su fuerte  contraposición: 30 segundos para realizar una nueva experiencia conceptual y estética, 30 segundos de tensión física y psicológica dirigidas a mostrarnos la dificultad que está en cada intento por alcanzar un ideal expresivo.

Seguramente el trabajo de Nashat necesitaba de un site specific como  el museo: no podría ser de otra manera. El museo se convierte él mismo en un personaje, un contenido y un contenedor; un lugar donde cada obra os parece seguir un perfecto orden cronológico y  que puede también transformarse en un lugar representativo de una nueva corriente estética y eso es el punto que me parece más interesante del trabajo del artista, es decir: subrayar de una manera muy sencilla esta oportunidad relativa no sólo al cambio de corriente en el arte sino a la concepción del museo.
La performance es simple en cada su parte, desde el principio hasta el final y, si existe una climax esta se resuelve en 30 segundos para quitar al museo una convicción absoluta que le dio el hombre a lo largo del tiempo: lo de ser el único lugar representativo del arte.

Barbara Bacconi, 2011
Victoria-Gasteiz





INCONTRO CON VANESSA GAI, MAGGIO 2010
La sofferenza o qualsivoglia disagio, se elaborata nella cosiddetta maniera giusta, può essere una grande causa di cambiamento per la nostra ed altrui vita.

Non è certo retorica, questa!

Già in molte filosofie si possono riscontrare insegnamenti che riguardano il trattare la sofferenza e non con la sofferenza e, trattandola,appunto, ci rendiamo ben conto di quanto essa faccia parte della nostra vita.
Dunque di un primo momento di sofferenza mi soffermo a parlare, di un momento storico, quello di Vanessa Gai che è stato protratto nel tempo e ove, ad un certo momento, Vanessa ha deciso di trovarvi una soluzione. Cambiare!

Vanessa Gai si butta, lascia cioè la casa paterna e decide di andare a vivere da sola.
Si butta, lascia lo studio di pittura ove, per troppo tempo, andava a dipingere copie d’autore e decide di dipingere cose sue, che appartengono esclusivamente al suo di mondo interiore messo a tacere in un remoto angolino ma che, dentro, fremeva ardentemente per essere manifestato.

Per lungo tempo Vanessa ha voluto e dovuto proteggere quella sua interiorità con pennellate di colore e stili pittorici non suoi; per lungo tempo Vanessa si è rifugiata dietro ad un Klimt, un Monet, un Vermeer, fra gli altri.
Ma lei, dov’era?

Vanessa Gai mi parla con l’entusiasmo di un’adolescente ed è così che vuole descrivere quel periodo storico: “….mi sentivo ancora un’adolescente, chiusa ovunque e con chiunque….genitori, nello studio di pittura a Empoli;  vivevo insicura, non volevo farmi vedere”, riferendosi in questo modo anche al suo rapporto con la pittura, ma dentro un piccolo seme aveva già cominciato a germogliare.





Sulla scia di questo cambiamento Vanessa decide quindi di mostrarsi e si “mette in vetrina”. Nel dicembre del 2008 si propone all’ Evolucion Caffè di Empoli per una pittura estemporanea, in occasione di  eventi musicale che hanno come filo conduttore il jazz. Saranno quattro gli incontri, dal vivo, in cui Vanessa avrà a che fare non solo col pubblico pronto lì a vedere il suo artefatto ma, soprattutto,  dovrà scontrarsi con le sue paure, incertezze, con un suo linguaggio pittorico che deve ancora prendere forma ed è per questo che Vanessa decide di rifarsi ad una  pittura figurativa- quella cioè che maggiormente conosce. Ma la cosa essenziale, in quel momento, è essere lì e rompere il guscio.

UN ANNO DOPO.
Il passaggio tra una pittura figurativa, nella quale si possono comunque distinguere già vari elementi simbolici e metafisici e l’attuale espressione artistica di Vanessa Gai, è descritto nel quadro che prende il titolo  “1°”, piccola superficie di 60x60cm, realizzato nell’estate del 2009.
Una nuova cifra pittorica dunque, nata per gioco, nella quale il linguaggio non sembra affatto embrionale, piuttosto si vede già chiaramente quello che la Gai ha deciso di intraprendere. Non a caso, forse, l’uso del colore bianco; non a caso l’intrecciare, con eccellente maestria, l’ordito e la trama di tessuti, per dare vita, con estrema forza e chiarezza, ai nodi.





Nodo, intreccio e bianco: questi tre elementi diventano le nuove fondamenta a rappresentanza di quel doversi ritrovare, di quel voler emergere.

Ecco allora che, legittimamente, parlo di ri-nascita che si manifesta nel complesso gioco cromatico e materico utilizzato dalla pittrice; yuta, nylon, cotone e colore che simboleggiano, puntualmente, la voglia di giocare, di tornare sì ad una realtà  però con  una dimensione intima ritrovata, più vera ed autentica che appartiene esclusivamente a Vanessa Gai.







Recensione
Guardando i lavori di Vanessa Gai non si può che rimanere catturati dal gioco cromatico, non meno dall’uso dei materiali. Ancora di più si rimane intrappolati dal suo linguaggio.
Vanessa Gai nasce come pittrice, e che pittrice: una giovane artista che comincia la sua esperienza riproducendo opere di Monet, di Klimt, di Veermer e molti altri maestri della grande pittura. Per anni lavora a queste riproduzioni alimentando però, intimamente, la voglia di esprimere il suo mondo, le sue emozioni, le sue sensazioni: il suo ed unico modo di percepire la vita.
I suoi quadri infatti vivono di questa nascita, vivono di quella necessità di ritrovarsi come artista, come creatrice, come brava artigiana che riesce a mescolare armoniosamente diversi materiali fra di loro.
L’artista riesce perfettamente nel suo intento, tanto da trasmetterci quello stress, quella tensione, quella rottura dal passato grazie ai suoi “nodi”, tirando e intrecciando la yuta ed il cotone, per lei cari materiali che rimandano alla semplicità della vita, ad una essenzialità, sì, quella essenzialità, quella unicità che comincia, adesso, ad appartenerle.
Il suo percorso inizia con un quadro di piccole dimensioni dal titolo “1°”, una tela di 60x60 cm ove predomina solo il colore bianco, simbolo di purezza. Vanessa si sperimenta così, usando il caso come elemento propulsore, come elemento guida, come elemento ludico e dove affiorano i primi nodi, prime tensioni verso un mondo artistico, il suo, da scoprire con gioia. Questo quadro, che sembra “parlarle” le dà l’occasione di continuare, di sperimentare una vasta gamma di colori e materiali. La sua tavolozza cromatica si arricchisce di rosso, azzurro, arancione; alla yuta intreccia il nailon nero per osare, per andare oltre quel primo passo.
Nel quadro “Gemelle” il nero diventa il protagonista indiscusso: si staglia sullo sfondo bianco e si intreccia ai nodi che l’artista ha ancora bisogno di usare. Il nero rappresenta la linea di demarcazione fra il passato ed il futuro, un futuro da scoprire, da creare, da ritrovare fra le trame dei suoi quadri.

Barbara Bacconi, 2010





Beatriz, energia della Materia, energia della Forma.

L’alchimia, oltre ad essere una disciplina fisica e chimica, implicava un’esperienza di crescita ed un processo di liberazione e salvezza dell’artefice dell’esperimento.
In tutto il lavoro artistico di Beatriz non mancano certo questi elementi: l’alchimia, l’esperienza di crescita ed il processo di liberazione. Tutti elementi, questi -come molti altri-, che negli anni hanno sicuramente caratterizzato il lungo lavoro di Beatriz Irene Scotti.





Non c’è un soggetto prediletto, ma c’è la donna, la Mujer con su cuerpo, che viene elaborata, trasformata, filtrata dalle mani di Beatriz; non c’è un solo colore ma una vasta gamma di colori che danzano e prendono anche loro corpo fra le abili mani dell’artista. Non c’è l’uso di una sola tecnica ma  tante e diverse fra di loro, come i materiali che Beatriz utilizza per giocare: vetro, rame, metallo, nastri, fiori, chiavi, bottoni, fotografie. In tutta questa miscellanea di tecniche e materiali, l’argilla è sicuramente il filo conduttore delle opere dell’artista: il raku, il gres, la porcellana, la terraglia e molte altre, come se esse rispecchiassero tutti i luoghi vissuti e visti da Beatriz.
Nella sua vita non c’è una sola terra di origine ma ce ne sono tante: Beatriz è una viajera, una viaggiatrice del mondo e, proprio questo mondo vissuto e conosciuto, si riflette nei suoi lavori, nelle sue ricerche, nelle sue fantasie, ma anche nella sua poesia.
Guardando le sue opere di sicuro si respira la sua Argentina e tutto il cosmopolitismo tipico di una città come Buenos Aires, ma si vedono anche i colori del Brazil, della Spagna, e di molte altre terre. Le sue mujeres, le sue boquitas pintadas, i suoi nidi…insomma  la sua arte proviene da tutto il mondo, attraversa la sua anima, la sua psiche fino ad arrivare alle sue mani che giocano e liberano la sua immaginazione.








Barbara Bacconi
Personale, Galleria Pasquinucci- Capraia Fiorentina.
Maggio, 2010

http://www.e-archeos.com/va/con-mis-manos.html




L'INCONTRO CON ELOISA TOSI


Ho conosciuto Eloisa a Firenze, nella Galleria di Palazzo Medici-Riccardi.
La presentazione e due chiacchiere.
Mi fido e mi affido a quel piccolo logo sul biglietto da visita: una coccinella. Mi incuriosisce e decido di chiamarla. Ci mettiamo d'accordo sul giorno dell'incontro: destinazione Bozzano, tra Viareggio e Lucca.
Mi perdo non so quante volte per raggiungere quel paesello, luoghi mai praticati e bellissimi alla mia vista: verde, boschi, colline.
Eloisa mi raggiunge. Erano circa quattro mesi che non ci vedevamo, stento quasi a riconoscerla quando mi si avvicina con la vespa, casco nero in testa!
Arriviamo davanti al cancello di una vecchia villa immersa completamente nel verde e nella tranquillità più totale (luogo ideale per liberare la propria creatività e ritrovare, anche solo per un attimo, la pace in noi stessi- penso).
Entro in casa con già tante domande pronte a farsi strada.
Questa casa-studio da subito mi accoglie e mi ci sento a mio agio. Mi sento abbracciata da un ordine e dai colori dei suoi quadri: appesi un pò ovunque danno armonia a questa prima stanza profumata di incenso ed illuminata dai raggi di un sole già invernale.
Fa freddo ma io sto bene. La coccinella mi ha portato fortuna.


Sono davanti al primo quadro che incontro e già mi sento trasportata dentro al mondo di Eloisa Tosi. E' bello...no, è veramente bello.



Delicato, armonioso, sì...va tutto bene- mi dico. Ma, soprattutto che c'è: c'è la pittura, c'è la tecnica, c'è un linguaggio unico ed inconfondibile di questa pittrice che, da non molto, ha cominciato a fare i primi passi in questo mondo pittorico.
Comincio allora con le prime domande e, tra una risposta e l'altra, la mia attenzione cade sempre sui disegni, sui quadri, sulle bozze. Le parole possono aspettare, voglio continuare a vedere e gioire di ciò che Eloisa mi sta svelando.
Dapprima mi presenta i suoi lavori a caso, senza seguire un ordine cronologico. Solo quando ci mettiamo a sedere e a pensare alla mostra, e ricomincio con le domande, solo allora i quadri trovano una loro collocazione storica.

                      



Eloisa mi parla di lei, del suo approccio alla pittura, di un mondo che ha delicatamente assaporato fin da quando era piccola grazie ai suoi genitori, agli amici, ai poeti e ai letterati che gravitavano nella te room zen di Viareggio aperta dalla madre.
Seguo attentamente ogni più piccola sfumatura dei suoi viaggi, in Italia e all'estero. E me la immagino, Eloisa, tra una esperienza e l'altra, tra un incontro e l'altro, alle prese con la sua ricerca pittorica che, ci tiene a sottolinearlo, è pura pittura, ispirazione, trasporto del colore.
Concettuale? No, non c'è niente di concettuale nel suo linguaggio ma solo un sapiente uso del colore che fa da soggetto e, simultaneamente, da veicolo. A volte, il colore, si trasforma in un Fiore, a volte in Lupo.


          

A volte s'impone con fermezza nel caschetto nero del volto di una Donna, per lasciare poi il posto a tenui velature che, senza dubbio, ci rimandano ad una nota elegante ed accattivante ed arricchiscono, come preziosi ornamenti, ogni quadro da noi attentamente osservato.

      

LA MOSTRA.
Mi suggerisce il titolo della mostra che voglio organizzare un fatto che Eloisa  mi racconta, di quando cioè viveva a Londra e frequentava la Saint Martin Shool of Art and Design, dove l'incontro e poi il rapporto con Domenique D'Olive diventano fondamentali.
"ONE TO ONE..." : uno a uno, esplicando proprio quell'intimo rapporto che ogni fruitore cercherà di instaurare di fronte ad ogni lavoro di Eloisa Tosi.
Lo spazio scelto per la personale non è una galleria d'arte e non ricorda nemmeno le atmosfere del white cube, tutt'altro. Si tratta della CITE', caffè letterario in Borgo San Frediano a Firenze. Non solo, propongo anche per la serata inaugurale un accompagnamento musicale del pianista Federico Zanetti, giovane talento del nostro panorama italiano.
Note e colori, musica e viaggi: sì, un connubio che ben si addice a questa prima serata lungo il percorso pittorico di Eloisa Tosi.

Barbara Bacconi, 2010




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